Un morto che cammina con il cuore indurito.
È uscita in lingua spagnola l’autobiografia di Claudio Naranjo, Ascenso y descenso de la montaña sagrada, 802 pagine, pubblicata da Vergara (Ediciones B) e disponibile qui.
Per l’occasione, Claudio ha rilasciato al quotidiano cileno La Tercera una ampia intervista che trovate qui in spagnolo e qua di seguito tradotta in italiano. Buona lettura.
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Nelle sue memorie – intitolate “Ascenso y descenso de la montaña sagrada” – il rinomato psichiatra rivede non solo il suo percorso professionale, ma anche il suo cammino più intimo, quello dei legami familiari. Parla della mancanza d’amore dei suoi genitori, delle ferite che gli hanno procurato e di come suo figlio sia stato un salvatore. Anche se dopo una tragedia.
Spontaneamente, quando parla di sua madre, Claudio Naranjo (86) racconta questa storia. Lo fa con una voce calma, anche se non è un ricordo felice: “Continuavo a succhiare dal seno di mia madre senza ricevere latte e solo sei o sette giorni dopo la mia nascita hanno notato che stavo perdendo peso invece di aumentarlo. Quindi, la mia prima esperienza dopo la nascita fu di fame e tutto era causato da un restringimento dei capezzoli di mia madre, come se non volesse concedermi del latte attraverso il suo corpo. Aveva a che vedere con il fatto che non fu lei a volere un figlio, ma mio padre.”
Questa madre, chiamata Julia Cohen, è uno dei personaggi di cui Claudio Naranjo scrive nella sua autobiografia appena pubblicata “Ascenso y descenso de la montaña sagrada”. Nel libro c’è, ovviamente, una panoramica di ciò che già si conosce di un uomo come Naranjo: che è un rinomato psichiatra, che viene seguito come una rockstar e riempie le aule con le sue lezioni, che da giovane si guadagnò una borsa di studi alGuggenheim e al Fulbright, che possiede lauree diuniversità americane e ha una laurea honoris causa in molte altre università, che ha scritto decine di libri, che è stato un medico poco ortodosso, che nei suoi trattamenti usòallucinogeni che lui stesso aveva sperimentato, che divenne un punto di riferimento della terapia della Gestalt e della psicologia transpersonale – tecnica in cui non si tiene conto solo della mente, ma anche dello spirito – che ha usato la musica e la meditazione come armi terapeutiche. Tutto questo è compresso nelle 800 pagine di questo libro. Ma ciò che sorprende di più, a causa della schiettezza e dell’onestà che ha, è il viaggio interiore nei suoi sentimenti. Un percorso che, secondo lui, è iniziato con la mancanza di amore.
- Racconti che tua madre, che studiava Legge e Giornalismo, era una donna molto illuminata, amica di intellettuali, di grandissima ospitalità. Ma lei era anche poco premurosa e non molto legata alla sua maternità. In che modo questo ti ha ferito?
- Beh, quando non hai qualcosa, a volte non immagini nemmeno ciò che ti manca. Non ricordo di aver desiderato che mia madre mi amasse in un modo diverso; per me era un mondo sconosciuto questo dell’amore. Ma non essere visto, non essere ricambiato, mi rendeva arido. È simile a quanto scoperto negli studi con i macachi: se un macaco non ha una madre pelosa a cui aggrapparsi, in seguito non sviluppa capacità Lo sviluppo dell’amore richiede che si abbia ricevuto amore. Per questo motivo fui una persona poco empatica, molto isolata, poco interessata agli altri. Uso molto la parola zombie, penso di essere stato un morto che cammina.
- È stato forte riconoscersi come un morto che cammina?
- Il mio cammino è stato una sorta di processo di guarigione da che ho memoria. Come Pinocchio, non ero interessato a nient’altro nella vita che diventare una persona vera.
- Nel tuo libro scrivi: “Sono cresciuto isolato nel mio mondo, con poca conoscenza degli altri e di me stesso. Ho imparato a non disturbare e ad aspettare senza reagire. Ho imparato ad essere solo, senza soffrire la solitudine, senza sentire nulla, diventando qualcosa di simile ad un morto che cammina.”
- Sì, e questo ha avuto molto a che vedere con le mie prime esperienze alla nascita, come quella che ho descritto prima di non essere stato in grado di nutrirmi dal seno di mia madre.
- Riuscì alla fine ad allattarti?
- Mi diedero il biberon. E io preferii il biberon, scelta che in un certo senso fu simbolica: preferivo il mondo delle cose al mondo delle persone.
- Da bambino come hai cercato di attirare l’attenzione di questa madre distaccata?
- Mia madre mi mandò in collegio quando avevo 7 anni e non era chiaro il perché, ma come morto che cammina non pensavo nemmeno di chiedermi perché mandarmi in collegio quando vivevo a soli 20 minuti dalla scuola. Quindi, ho fatto un ragionamento implicito per cui l’unico modo per ottenere l’amore di mia madre o interessarla in qualche modo era di essere un bravo studente. Sono diventato più intellettuale a causa di questo bisogno di dire eccomi, io esisto.
- Nel libro dici che durante la tua infanzia la odiavi inconsciamente, e che nell’adolescenza l’odio nei suoi confronti diventò cosciente.
- Sì, ricordo molto bene che all’età di 14 anni volevo prendere mia madrea calci in faccia e trovavo la cosa profondamente ingiusta in quanto lei, apparentemente, era un’ottima madre. In me non c’era il pensiero che mi avesse deluso, che per qualche giusto motivo potessi essere arrabbiato e in più mi sembrava un’aberrazione odiarla, mi sentivo un mostro nel sentire così tanta rabbia.
- Ma la rabbia c’era…
- Ovviamente c’era. E sono stato in psicoterapia per fare uscire quella rabbia, per cercare di capirla e infine per metterlada parte.
Essere padre…
Il padre si chiamava Vicente Naranjo. Era il capofamiglia, lavorava come tesoriere provinciale di Valparaíso e raramente era a casa. Quando c’era, piantava alberi di arancio nel cortile. Era molto diverso da sua moglie, Julia, sebbene fossero entrambi liberi pensatori e viaggiatori. Aveva una biografia più umile, che questa donna di originifrancesi guardava non di rado con disprezzo. Con gli anni si sono separati.
Claudio Naranjo era figlio unico. E si rese conto delle differenze tra i suoi genitori. Anche nei dettagli della vita di tutti i giorni: “Quando viaggiavo con loro in macchina e la radio era accesa, mia madre sceglieva la musica classica; e mio padre preferiva la musica popolare.”
- Ma nemmeno sei riuscito a stabilire unlegame con tuo padre. Hai provato ad amarlo, ma è sempre rimasto lontano e delegò tutto ciò che ti riguardava a tua madre, mentre tu lo idealizzavi da lontano.
- Fu così. Oserei dire che sono sempre stato alla ricerca di un padre, anche senza rendermene conto; cercavo persone da ammirare.
- E questa assenzadel padre fu diversa da quella della madre?
- Direi di si. Mio padre era più materno di mia madre, si relazionava più facilmente, era più protettivo, più tenero; solo che non lo è stato con me, perché mia madre aveva un atteggiamento molto possessivo nei miei riguardi. Quando conobbi Bob Hoffman, un grande veggente, mi disse: appena nato ho visto mio padre avvicinarsi a mia madre mentre ero tra le sue braccia; mio padre voleva prendermi tra le sue braccia e mia madre si scandalizzò all’idea perché non era sterilizzato. Hoffman mi ha detto che mio padre si arrabbiò ed ebbe un atteggiamento del tipo “bene, stai con il tuo bambino, io me ne lavo le mani”. Ed è quello che ho sempre sentito: che mio padre non è andato fino in fondo, se ne è andato, ha rinunciato a essere mio padre. Per cui ho sentito in mio padre una persona umana, amabile e amorevole, ma che si era ritirato dalla mia vita e non capivo il perché.
- Cosa è successo nella tua vitaquando èstato il tuo turno di essere padre? Hai ripetuto il copione o sei diventato il padre che avresti voluto avere?
- C’era una parte di me che non voleva essere come i miei genitori. Da padre, volevo soprattutto che mio figlio fosse libero, ma non era solo una ribellione all’ambiente tradizionale che mi circondava, c’era anche un elemento di esperienza diretta. Per me, le parole che ho letto di Dostoevskij erano verissime: con un bambino si può parlare di tutto ed è un essere meraviglioso. Ho avuto la percezione del bambino come qualcosa di quasi divino, che non è stato ancora sporcato dal mondo. Poi ho sentito la responsabilità di trattarlo come qualcuno che, da un lato, ha una grande profondità nella sua coscienza e dall’altro non conosce il mondo, e che tuttavia merita che tutto gli sia spiegato bene e onestamente. Non volevo ripetere la mia infanzia, in cui tutto fu fatto senza consultarmi e in automatico.
Matías Naranjo Bruna nacque a Santiago il 27 gennaio 1959. Nello stesso giorno di Mozart, scrive suo padre Claudio nel libro. Egli ha scelto il nome in questo modo: combinò Matías unendo al sanscrito “mat” – allusivo di saggezza – la fine “ías”, che era un suono che lui visualizzò come una linea ondulata e gli suggerì la proboscide di un elefante. “Matías è stato come una goccia di gioia nella mia vita”, scrive nella sua autobiografia.
Claudio Naranjo si separò dalla moglie, Cecilia Bruna, quando il bambino aveva 4 anni. Claudio, che viveva a Berkeley, negli Stati Uniti, e aveva iniziato una buona carriera come terapeuta, lo vedeva saltuariamente quando tornava a Santiago. Quando, pochi anni dopo, la madre di Matías si trasferì a Parigi, decise di lasciare il figlio con suo padre. Il ragazzo si trasferì a Berkeley alla fine degli anni ’60.
- Hai avuto uno stretto legame con tuo figlio. Ma riconosci anche di aver avuto una genitorialità inadeguata, di sentirti poco preparato per questa esperienza.
- Sì, in un certo senso ho dimenticato emotivamente Matías. Ricordo di avere avuto sogni in cui lo portavo in una valigetta; non era più una persona nel mondo delle persone, ma un oggetto nel mondo del mio lavoro. Lo trovavo mostruoso, ma era quello che provavo.
- Mi sembra una relazione basata su un tuo senso di colpa, causato dalla separazione da sua madre, dal non vederlo spesso … Come si ama quando c’è un sentimento di debito di questo tipo?
- Il debito mi sovraccaricava l’umore, ma non credo che poteva togliermi la capacità di amare. Ciò che mi aveva tolto la capacità di amare era che semplicemente ero una persona con un cuore piccolo, con un cuore stretto fin dall’infanzia.
- Parli di un cuore indurito. L’eredità del bambino che è un morto che cammina, suppongo.
- Ovvio; il morto che cammina era già meno morto, ma qualcosa era rimasto di quel problema, ero una persona fredda.
Doveva accadere una tragedia, il dolore più profondo di tutti, affinché il cuore indurito di Claudio Naranjo si addolcisse. Si spaccasse dall’interno. Si spezzasse in due.
Finalmente l’amore
Era la Settimana Santa del 1970. Claudio Naranjo era in viaggio di lavoro a San Francisco. Matías, suo figlio, era andato in gita in un’altra città della California con alcuni amici di suo padre. Sulla strada, il veicolo su cui il ragazzo viaggiava precipitò da un dirupo. Varie persone rimasero ferite. Matías morì sul colpo. Aveva 11 anni.
Un poliziotto chiamò il padre alle 5 del mattino per avvertirlo. Claudio Naranjo era nella stanza del suo albergo. Dice di essersi inginocchiato sul letto tirando pugni contro di esso. Definisce ciò che sentiva “una valanga di dolore”. Ha pianto per diversi giorni.
Pianse fino a un punto in cui si rese conto che le sue “lacrime erano sbagliate”. Che, affinché la morte di Matías non fosse vana, doveva trovare un senso. E che questo partiva dal lato sinistro del suo petto. “Fu come guarire dalla mia malattia. La mia malattiaera questa insensibilità, questa anestesia emotiva, ma con la morte di Matías, quel velo si strappò dal mio cuore”.
- Nel libro dici che la morte di Matías fu “il modo in cui Dio ha colpito il mio cuore indurito”.
- Immaginavo che Matías fosse venuto al mondo per farmi questo favore: colpire il mio cuore e graffiarlo così da poter sentire il dolore ed iniziare ad amare allo stesso tempo.
- Rompere quel cuore di morto che cammina.
- Si, quel cuore di morto che cammina.
- Aveva una missione, allora.
- Da quando Matías è morto, lo immagino come se fosse venuto al mondo per morire, per darmi l’esperienza della sua morte e così risvegliarmi. Che tutto questo fosse dovuto ad una volontà superiore potrebbe essere suggerito dal fatto che la sua morte è avvenuta il Sabato Santo.
Tre mesi dopo la morte di suo figlio, Claudio Naranjo se non andò per 41 giorni nel deserto di Arica. Era solo, a meditare e contemplare la natura. A 37 anni si aprì a quella che lui chiama una nuova vita, orientata alla spiritualità e all’amore, verso se stesso e gli altri. Questa èstata una parte importante del lavoro svolto come terapeuta.
“Nel mio ritiro nel deserto di Arica c’era un proposito di illuminazione, di realizzazione mistica. Era come se non fossi felice di aver messo da parte l’anestesia emotiva, non fossi contento che la morte di Matías avesse raggiunto il suo scopo, non fossi soddisfatto del fatto che la sua morte avesse avuto il senso di un risveglio emotivo, volevo usare quella circostanza per andare oltre. Mi è servita come stimolo per fare il lavoro di cui avevo bisogno nel deserto, per seguire i lavori che mi erano stati pre-scritti. Fu come un’elaborazione della morte di mio figlio”, afferma.
- Altre morti non ti hanno influenzato allo stesso modo. Penso a quella di tuo padre, in un incidente. O di tua madre, quando era già una donna ottuagenaria e malata.
- Sì. Per quella di mio padre, versai solo qualche Per quella di mia madre, niente. Al suo funerale feci un sorriso quasi meravigliato, con l’idea che fosse felice di andarsene. Mi aveva detto al telefono quando l’ho chiamata prima di viaggiare per vederla per l’ultima volta: “Qui sono viva, ma non so se è una punizione o un regalo”.
- Nel libro dici che col tempo hai cercato di amare i tuoi genitori. Ci sei riuscito?
- Sì, è una delle cose che sono riuscito ad ottenere. Non posso più dire di essere arrabbiato per la vita che ho vissuto. Mi sono riconciliato molto tempo fa con tutto questo, comprendendo che viviamo in un universo causale, che tutto èavvenuto nell’unico modo possibile e che non c’erano Ho parlato con mia madre quando era ancora in vita e mi chiese di perdonarla; prima di morire avevo già compreso e mi sono riconciliato con lei.
Claudio Naranjo tace. Al telefono – vive a Barcellona – ascolto solo il suo respiro e il battito della sua mano sinistra su un tavolo, perché un po’ di tempo fa ha iniziato con dei tremori che la scienza non è stata in grado di spiegare. A 86 anni, quest’uomo ha una salute cagionevole. All’inizio della conversazione ha detto che negli ultimi dodici mesi è stato ricoverato in ospedale sei volte. L’ultima volta è avvenuta a gennaio a Udine, in Italia. È stato colpito da una bronchite spastica che lo soffocava, e che gli ha lasciato giusto il tempo necessario per arrivare in ospedale. A causa della successiva prescrizione medica, gli sono proibiti i viaggi lunghi. Ne farà solo un altro, a metà dell’anno, per andare a liberare la sua casa a Berkeley e per dire addio al suo ex insegnante buddista, prima di stabilirsi in Europa definitivamente. Si dedicherà alla vita contemplativa. Non darà più lezioni; terminerà solo un paio di libri. Vuole concentrarsi su se stesso e prepararsi per quella che chiama la grande transizione.
All’improvviso, sento di nuovo la sua voce al telefono. Riprende i concetti che aveva prima di questo silenzio. “Sì, a 86 anni, mi sento tranquillo con i miei genitori”, afferma.
- E a 86 anni, come vedi e senti Matías, il tuo unico figlio, morto quasi mezzo secolo fa?
- Sento che Matías mi è stato molto vicino dopo la sua morte, come se fosse presente. E ora non è più così presente, come se lo avessi un po’ dimenticato.
- Perché?
- Non lo so, ma è così. L’ho amato molto, ho sofferto molto, ma non posso dirti che mi manca. È un po’ come se l’avessi dimenticato. Posso dire che intellettualmente mi manca, ma non è un gesto emotivo, non è una vera mancanza.
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